
Anche Slack sceglie il Direct Listing; perché le grandi startup stanno evitando le classiche IPO?
Slack Technologies ha deciso di non optare per la classica IPO ma di vendere le proprie quote agli offerenti con il metodo un po’ più inusuale (almeno per società così grandi) del Direct Listing. La quotazione, che dovrebbe avvenire intorno alla metà dell’anno, si aggirerà intorno ai 7 miliardi di dollari.
Non si tratta del primo unicorno che ha deciso di prendere la via del Direct Listing; come Slack anche Spotify, in aprile, prese la stessa strada e si vocifera che AirBnb voglia fare altrettanto. Raramente succede che società di questo calibro si lancino sul mercato azionario utilizzando questa tipologia di quotazione. E’ certamente un cambiamento particolare e da tenere in considerazione nel mondo finanziario. Ma quali sono le ragioni di fondo dietro questa scelta?
Prima di analizzare possibili vantaggi e svantaggi, è necessario capire quale sia la differenza tra un direct listing (anche detto Direct Public Offer o DPO) e una Initial Pubblic Offer o IPO.
Con un direct listing, la compagnia interessata alla quotazione, vende i propri titoli direttamente sul mercato, senza nessuna sottoscrizione intermedia delle proprie azioni ad opera di un intermediario (banca di investimento). Questo significa che è la stessa azienda a farsi carico del rischio del processo di vendita sull’exchange e che sarà la legge domanda-offerta a determinare il prezzo dei titoli.
Nel caso di una IPO invece, i titoli sono sottoscritti da diversi underwriters e il processo di “bookbuilding” è guidato da una o più banche d’investimento, le quali spesso si fanno carico del rischio e bilanciano il prezzo in caso sia troppo basso o troppo alto durante le prime ore di mercato (GreenShoe). Tutto questo comporta un costo da pagare da parte dell’azienda che si aggira intorno al 5% del capitale ottenuto (50 milioni per ogni miliardo ricevuto).
Generalmente, sono le piccole compagnie o aziende in particolari condizioni economiche ad optare per una DPO piuttosto che per una IPO, in buona parte per una questione di costi.
Il trend di queste grandi startup che decidono di optare per una DPO
dipende probabilmente dal fatto che esse approfittino del fattore “brand leverage“, ovvero fare leva sul proprio brand molto attrattivo e conosciuto per poter vendere direttamente a tutti coloro che rappresentano i loro customer o utilizzatori e che sono anche investitori non accreditati, dipendenti, famiglie etc.
Un altro vantaggio da prendere in considerazione per le DPO è la liquidità.
Nelle normali IPO gli attuali azionisti hanno dei vincoli di vendita nei primi mesi dopo la quotazione, mentre nelle DPO non esistono questi vincoli.
La liquidità è un fattore molto apprezzato dagli investitori di startup che aspettano la quotazione per effettuare la “exit” e raccogliere i loro profitti.
Seppur oggi si registrano pochi casi di Direct Listing di grandi dimensioni, resta un trend da tenere d’occhio nei prossimi mesi/anni, in quanto potrebbe ridurre il ruolo chiave degli intermediari di Wall Street per le grandi società tech in fase di public offering.
Concludendo, una IPO comporta meno rischi e più stabilità della domanda di titoli, ma costi più alti da pagare alle banche d’investimento.
Il Direct Listing costa molto di meno in termini di fees e offre maggiore liquidità per gli investitori, tuttavia è più rischioso nel processo di vendita, rischio che le grandi startup “virali” possono correre in quanto la loro brand recognition è molto forte e bilancia i principi di matching domanda-offerta al momento della quotazione.
Nessun commento